Delirio old school

stellar stop

Anche la musica, ad esempio. Ho sempre avuto il bisogno di far sapere in giro cosa ascoltavo. Come se la fuori avrebbero dovuto sapere quanto cazzo profondo era il burrone appena sotto ‘The Times they are  A-Changin” che avevo scovato tutto da solo, da bravo bambino. Ma, come da Title Track, le cose cambiano. Non in male, non in meglio. Cambiano. Dieci anni fa ero ridicolmente nostalgico. Ora non più. Non è un bene, non è un male. Venti anni fa odiavo le rape, ora le amo. Questo è bene. Un pranzo di un matrimonio del sud oggi è una minaccia di morte, quindici anni fa una passeggiata di salute. Questo è male. Non cadrò nel tranello di dirti se è meglio oggi o ieri. Tra quindici anni avrò cinquant’anni. Risentiamoci per allora.

Eppure ci sono determinate cose che difficilmente riesco a modificare o cambiare.  Ho negli occhi delle ciocche di nero corvino che vanno a coprire per metà un volto che se guardo il sole e poi chiudo le palpebre riesco comunque a vedere. Prima c’era l’animo di un disgraziato romantico a raccontarne i tratti? Si fotta, il bastardo. Perso nell’iperuranio che mi sfugge. Gli ho promesso tante botte, mazzate, palliatoni a catena. Do you know “palliatoni a catena”? Non ce l’ho con lui. Lo rivedo ogni volta nello specchio. Gli voglio bene. Vorrei che stesse meglio, ecco. Sono mazzate piene d’amore.

Caro volto a metà, solcato da quel sorriso che navigando lungo solchi lunghissimi scavati in terre vastissime, per anni e anni, ha potuto trionfare tra tutti quelli che ho visto. In case disperate, in strade scure e dal pungente odore di alcool, nelle aule più pulite e sporche di potere in pectore, negli edifici che ho visto troppo poveri di rabbia rivoluzionaria. Dove sono stato felice. Dove ho nuotato dolcemente nella disperazione. Ovunque ho trovato qualcosa. A volte erano scarponi, altre perle. Ma qualunque pescatore d’ostriche dell’Oceano Indiano converrebbe su quale è il tesoro più prezioso. Trovato uno del genere, si vende tutto e si sparisce da un giorno all’altro. Si va ovunque, basta che con te ci sia il luccichio della perla. Anche nei tuoi vangeli c’è una storia del genere. E se la dice pure quel tipo hippie che ti piace tanto, possiamo fidarci. Pace e amore sulla terra agli uomini di buona volontà, ai porci alla Bukowski, e al Rock ‘n’ Roll.

……………..

Caro blog, a te ho poche cose da ricordarti. Tu sai. Io so. Lungo le traiettorie lunghissime  delle spirali della Via Lattea, a ritmo delle Pulsar più lontane, ci sono dei punti dove ci rincontreremo. Quando sembrerà la fine non lo sarà. E quel quadro, delirio di un Banksy ubriaco, ci vedrà protagonisti. Mi pare di vederlo. È una stazione interstellare, c’è una decappottabile. Io sono lì. E ci sei anche tu. Ci vediamo presto, blog. Secondo i nostri tempi.

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La profondità impronunciabile di tutte le cose

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Il lato peggiore è aver presente cosa vuoi dire ma non essere soddisfatti di come lo stai dicendo. Credo sia tendenzialmente straziante quando la questione capita a chi ha velleità da scrittore, sceneggiatore, regista e bla bla.

Mi ritrovo, ultimamente, a credere che per lavoro io rifletta. In un certo senso è vero. In qualche modo c’è altra gente che si aspetta questo da me. La domanda qui sarebbe: “basta questo o serve poter firmare un contratto d’acquisto di una Maserati?”. Evidentemente non si è ancora a quel punto e poi io la Maserati non l’acquisterei comunque. Preferisco un comodo e sicuro Suv. Guidare mi fa cagare. In molteplici sensi.

E uno a riflettere si accorge che la parola “profondità” ha più di un significato. E se rifletti sulla linguistica il cervello ti va in pappa. Rischia di imparanoiarsi. Forse contribuisce il misterioso connubio tra indica e sativa che ti hanno dato. Chissà quali sono le percentuali reali dell’una e dell’altra. By the way, è già diverso tempo che penso alla pluridimensionalità delle parole. Ci sono cose che puoi seguire lungo una strada.  Altre parole che ti lanciano verso l’alto e altre che ti sbattono all’inferno. Spesso strappandoti i pantaloni e mettendoti con forza la faccia contro un muro. Quello dipende da quanto vai in fondo a quello che vuoi dire.
Che vuol dire essere schiavi? Tu lo sei?
Davvero ci sono altri universi dove tu sei quello che vuoi? Ti sembra una fantasia post adolescenziale? Hai provato a parlarne con Roger Penrose, Werner Karl Heisenberg e/o Erwin Schrödinger, ultimamente? O hai paura della puzza dei cadaveri dei gatti, morti in chissà quale scatola?

Dunque, quanto possiamo andare giù per la tana del Bianconiglio? Quanto possiamo scendere, salire andare avanti, dietro,  destra o sinistra? E a che punto capiremo quello che Penrose dice quando afferma che la distanza siderale tra quei maledetti elettroni è solo un’illusione? E quanto dovrò scendere giù per non cadere nella trappola di diventare uno scrittore di racconti fantastici? Mi fanno paura i lettori di quel genere. Sono strani e si vestono male. Anche io sono strano e mi vesto male ma non è quello il punto.

C’è tanto da dire. C’è tanto da descrivere quando vedi a occhi chiusi mandala colorati crescere al ritmo di Beethoven, Battiato o dei Pink Floyd. Quei disegni geometrici o che tu percepisci tali e che si vanno a collegare, per l’appunto in profondità, a qualcosa che tu sai già ma non sai come esprimere. Ad un tratto potresti dire “Ho capito” e ti accorgi che già tutti sapevano. Sapevi anche tu. Non con quelle parole. Con parole sbagliate. E posti, gente, musica, idee, politiche sbagliate. E se quei due elettroni, che credi distanti miliardi di universi stellati tra loro, sono in realtà uno a fianco all’altro, come lo dici? Come fai a spiegare alla gente che lo hanno sempre saputo. E che i fratelli/fratello-sorella/sorelle Wachowski non c’entrano nulla. Hanno visto forse anche loro qualcosa contorcersi come una spirale e hanno interpretato. Ma qui stiamo parlando di quei pomeriggi grigi a cui le finestre su città che non ti sono mai appartenute non hanno mai contrapposto difese idonee. Parliamo di quelle colline che scappavano vigliacche all’arrivo del treno che ti portava in grembo verso altre posti dove andare a scopare, deprimerti, sorridere e deprimerti, deprimerti, deprimerti. E ogni volta che l’ansia ti legava le sue mani di velluto intorno al collo, ecco che quella cosa, per un tratto, ti sovveniva. Hai provato mille volte a leggerla su quella lingua. Niente. Hai provato a schiaffarla in fondo alla gola di qualcuno ma non è mai bastato.

Questo perché non esiste quella parola. Ti sei dannata/o l’anima inutilmente. Non potevi dirlo. Non c’era modo.

E ora? E ora niente. Non vorrai mica una soluzione, vero? Soluzione che è già chiara, tra l’altro. Per ognuno di noi. Una di quelle cose che quando ti viene in mente, dici: “Ah già, giusto. Non era difficile”. Eh… sì. Non lo so se la scriverò. Dipende da che ascolterò quel giorno e da dove sarà questo blog. Sopra, sotto. Davanti, dietro. Ieri, domani.

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Sul finire dell’anno

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Niente è perfetto. Se dovessi fare uno dei polpettoni dei miei, potrei avventurarmi in una spiegazione complicata, alla fine della quale la società, il capitalismo, noi stessi abbiamo creato  un’aspettativa insensata nei confronti della perfezione. Se da un lato i tuoi amici, detti anche la combriccola di Gesù Cristo, si battono il petto da millenni, gridando per strada che l’uomo è vergognosamente imperfetto (agognando di curare con le botte tale impura mancanza), dall’altro ci bombardano di immagini dove la mulino bianco, Chiara Ferragni dopo il parto, le pubblicità, la Disney e altre cagate insignificanti ci impongono di essere impeccabili. Quanto è orribile essere perfetti. Proprio perché nessuno lo è davvero e coloro che ci provano ad insinuare il loro stato, ai loro occhi divino, si coprono di ridicolo.

Tu questo problema non ce l’hai. Sei meravigliosa nel tuo essere irrefrenabilmente una frana. Se una parola inopportuna gravita nell’iperuranio, tu con le tue incredibili capacità, riuscirai a coglierla e donarla al mondo. Fortunatamente non la fai uscire così. Sorridi. Forse perché sei la prima a rendertene conto. E qualunque cosa esca dalla tua bocca, sia una estrema sciocchezza o una profondissima riflessione che spesso cacci così all’improvviso, spiazzante, esce fuori come una musica sincopata. Una melodia trascinante. Ora malinconica, ora ritmata e brillante.

Ed è incredibile come gli altri esseri umani sbattono il capo al muro da millenni nel tentativo di ricercare la perfezione. Tu, nel tuo essere perennemente insicura, quella perfezione l’hai almeno sfiorata. Con la grazia che ti contraddistingue. Ma lo hai fatto in maniera misteriosa. Innanzitutto per te, che non hai cognizione di quanto tu ci sia vicina a quella perfezione. Tanto più vicina degli altri.

Di conseguenza anche io, non so bene come, quella perfezione sono arrivato a sfiorarla con i polpastrelli. Magari l’ho sfiorata male come quando ti accarezzo senza badare troppo alla delicatezza. Eppure l’ho fatto. E ne sono convinto sempre più ogni volta che sorridi per qualche inenarrabile sciocchezza che dici a mezza bocca per poi pentirtene subito dopo.

La perfezione però non è un punto di arrivo, è un modo specifico in cui muoversi. Dal vagare perennemente, allo stare chiusi in una stanza. E quel modo di muoversi mi sembra di capirlo solo con te.

Direi che questo post si è discostato un po’ troppo da quelli tipici. Ma uno, soprattutto alla fine dell’anno, ci sta.

Ora bisogna semplicemente riprendere il cammino. Qualsiasi esso sia e qualunque sia la direzione.

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La prossima fermata è un punto lontano

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Quante volte blog, te l’ho detto. Ti ho lanciato per mesi, anni, millenni nello spazio interstellare e nella tua pesca a strascico hai sempre beccato qualcosa. Quei numeri nelle tue statistiche continuavano a viaggiare e mi sono sempre chiesto chi diavolo fosse a trovare chissà dove quelle righe sperdute.

Come una madre malinconica ogni tanto tornavo a vedere quei post lontani. Ero un io che piano piano è svanito per diventare qualcos’altro. E credo che se raccontassi ad ognuno dei me che si cela dietro ognuno di quei post, sarebbe felice di sapere che qualcun altro gli osservava e con loro il mio moto di rivoluzione intorno a qualche buco nero lontano.

È bello sapere che qualcuno ne ha avuto cura. Li ha aperti e ha saputo come leggerli. Questo mi fa pensare a quanto sono uno stronzo a non scriverci spesso. Ma se qualcosa rimane di quel romanticismo al limite dello smieloso che avevo un tempo è l’idea che questo blog in un modo o nell’altro ritorna. Come una spirale: un eterno ritorno e una crescita costante.

Questa invenzione dei maledetti americani ha una sua utilità, mortacci loro.
Guardo indietro è provo tenerezza. Per i post banali, per quelli fighi, per le acrobazie linguistiche e retoriche e per me. Per le paure di un tempo e per quello sguardo che mi sembra non sia mai svanito del tutto.

Ed è bello che dopo tutti sti giri, galassie, risse sfiorate, città di merda, quartieri splendidi, racconti, sceneggiature, video, litigate, donne, fregature, delusioni, lacrime, serie tv, poesie, scopate, mari, fiumi, ville immense, tramonti, persone sorprendenti,  estasi, trip, visioni, sogni conturbanti, viaggi, festival, problemi, risate ecc alla fine quello sguardo abbia trovato un punto dove fermarsi. Si è posato proprio sullo sguardo che quella traiettoria interspaziale l’aveva seguita dall’inizio. Uno sguardo che tanti di quei post li aveva già fatti nascere.

Fosse per me non scriverei niente. Mai più niente. Ma gli sguardi non sono fatti per fermarsi. Se si fermano vuol dire che il medico non ha belle notizie per te. Devono riprendere il viaggio. Ma tutto cambia se ogni punto che fissano come segugi è visto da un altro sguardo lì accanto:
“Ehi, hai visto quello?”
“Naaah incredibile, assurdo!”
Tutto sembra avere un senso. Qualunque cosa quel punto ti regali, energia o altre stronzate simili, entra in uno sguardo e riesce dall’altro, come un circuito dove l’universo fa entrare le sue scariche cosmiche per ricaricarsi ogni giorno. Ci vuole energia per far girare la baracca.
Lì in giro lo sospettavo, ma ora non vorrei smettere più di tuffarmi nella corrente.

Sono in giro blog. Qui continua a girare tutto, come sempre, solo che ogni tanto se ti fermi a pensarci la cosa non è affatto male. Carica a bordo quello sguardo che tanto mi piace e ricominciamo.
Un’altra buona notizia è che la colonna sonora del viaggio sarà sempre superlativa.

 

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La casa e il vestito a fiori

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Ho visto una casa bellissima qualche mese fa. Sperduta in un luogo lontano da tutto e tutti. Era adagiata su un colle e tutto intorno le si apriva l’Universo. Sì, solo una porzione, quella che conosciamo. A sinistra Montefinese, davanti il tuo paese, a destra ruderi di case abbandonate che un tempo erano un luogo pieno di persone e ora sono quello che la gente chiama paese fantasma. Tutto intorno c’era il grano maturo che si distendeva e ritraeva ad ogni raffica. Il vento era come un movimento di una sinfonia di Beethoven. Un equilibrio perfetto tra armonia e silenzi. Sapeva, come il buon Ludwig, quando tacere e quando crescere a dismisura facendo alzare le pule intorno ad un mulinello d’aria che spazzava il cortile. Poche volte ho visto un panorama così bello. Ho pensato che lì di fronte potresti starci bene, appoggiata alla porta mentre il mondo ci guarda contemplarlo in pace. E magari, ad un tratto, potresti girarti verso di me e sorridere.

Arrivati a questo punto, sinceramente e anche un po’ sorprendentemente, non ho più molte parole. Le immagini rimangono tante. Sembra un film di Terrence Mallick, almeno nella fotografia. Ti seguo e i miei occhi sono un grandangolo selvaggio. Tu che ti fai strada tra il grano, in un lungo vestito scuro a fiori. Ora ti vedo in un Campo Lungo, su un costone del colle e sembri così in armonia con i pochi alberi che spuntano dalla terra arida, che di malavoglia ha concesso le spighe che stai raccogliendo tra le mani e tra i capelli.  Io lì vorrei solo scrivere. Fare pausa ma solo per scrivere qualcosa di diverso per te. E tu potresti cantare, con i falchi grillai che planano sulle tue note e un nibbio reale, poco più in alto, a volteggiare come un Largo ma non tanto.

Ho il cervello che cammina molto velocemente. E questo film nella mia testa è già in distribuzione. Da quest’altra parte dei miei occhi so che non è una scelta azzeccata. Eppure i tuoi sorrisi che hanno quell’aria così simile ai campi di grano spazzati dal vento come possono esimersi da leggere le mie stronzate? Come si rischia. Ma infondo rischiamo ogni giorno e poco mi interessa. Se le tue mani che camminando sfiorano i papaveri e i tuoi occhi che rimangono incantati per la danza dei pini e degli eucalipti nel vento, possono andare appoggiarsi dove vogliono e dove vorranno, se sarà il mio corpo o il mio viso a fermare la loro corsa tanto meglio. Meglio perché entrambi abbiamo la chiave da mettere davanti al pentagramma dell’altro. Questo lo sappiamo. E solo così la melodia avrà un senso.

I nibbi volano altrove ora. Io non mi sento ispirato ma da qualche parte quella casa sperduta è viva. Mi aspetta. E tu sei sull’uscio, con lo sguardo perso verso ovest, nelle orecchie una sinfonia di Beethoven e sulle labbra un sorriso che conservi per me.

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Gli effetti strani

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Ci sono cose che ti provocano degli effetti strani. È difficile da spiegare. La questione sta tutta lì, nella difficoltà di spiegarli a parole. Aiutano gli ossimori e soprattutto le sinestesie. Perché addosso senti fuochi freddissimi che scendono giù per la pelle. E sono talmente freddi che ad un tratto senti divampare un incendio. E mi pare di aver sentito gli odori del gineprio sotto i polpastrelli, quando quel ciuffo ribelle l’ho adagiato sull’altro lato del tuo viso. Aperto come le polveri luccicanti della nebulosa di Orione. Ma sono le parole, che escono fuori come le bestemmie dei carcerati o le banalità sconnesse degli innamorati che non hanno mai letto un libro,  a creare maggiore confusione. Quando le lanciamo come salvagente nell’oceano nella speranza di salvarci l’un l’altro. E quel salvagente speravi proprio che ti arrivasse. E quando ce l’hai addosso quasi ti senti in colpa. Metti in dubbio di meritarlo. Ti eri quasi abituato alle onde alte 6 metri che ti investono. Poi però, messo al sicuro su quella barca piena di derelitti quali siamo, vedi che la rotta continua comunque. I mari solcati sono quelli. I porti in cui la nave scarica e carica sono sempre gli stessi. Qualcuno può contarne un paio di più, magari segnato da tatuaggi e cicatrici sulla pelle. Ma ogni molo si assomiglia, a suo modo. E che effetto fa un porto in cui ti dici: “Qui l’àncora la getterei davvero”? L’àncora la getterei davvero?! Io, vecchio lupo di mare e di tempeste? A volte penso che i maremoti ci piacciono. Ci piace rischiare il naufragio ogni volta e raccattare i resti tra i flutti in qualche isola deserta. Ma ogni marinaio sa che non è così. L’effetto strano che ti fa il grido “Terra!” nessuno che ha preso il mare lo sa spiegare. Vivrebbero sempre sulle onde ma è quel grido che vanno cercando. Sperando che il porto sia quello giusto dove approdare. Dove nelle taverne vicino ai moli si beve buon vino. E magari il tramonto dalla costiera è il più bello di sempre. Dove forse c’è un prato dove stendersi e da cui si può vedere il mare, gigantesco e infinito, e magari dove aspettare un mese, otto, o magari anni per riguardarlo con chi è approdato in quel momento. Dopo aver navigato per altri mari e aver visto altre spiagge. E magari dirsi: “ecco il prato dove ti stavo aspettando. Ora che sei arrivata fa uno strano effetto”. Già, fa tutto uno strano effetto. E a poco serve scriverci sopra cercando di spiegare che significa. Tra le nostra urla colorate, le nostri pelli in tormenta, le nostre ruvide luccicanze sotto la luna e altre sinestesie a caso, un senso ci sarà. Lo scopriremo forse sulle labbra dell’altro, sulle mani che corrono lungo la schiena o magari semplicemente in un paio di bottiglie di birra finite sul belvedere. E io lungo il tuo sorriso e tu addosso ai miei occhi forse proveremo un effetto strano. La cosa importante, però, sarà che non ci sarà bisogno di spiegarlo.

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Questo blog era un attimo in giro.

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E quindi qui le cose sono andate avanti senza di me? Vedo che pochi giorni fa ci sono stati 5 visitatori per una cinquantina di visualizzazioni. Su dai, che cazzo volete? Qual è il vostro problema? Come avete trovato questa piattaforma a largo di Kepler o Tannhauser? Mah. Io pensavo che le cose fossero cambiate in questi anni. Non scrivo dal 2015. Eppure, evidentemente, quello spirito sublime e di merda che spinge tanti deficienti come me, dal più incapace al più talentuoso, a mettere le mani sulla tastiera è ancora forte e attorcigliato intorno alle nostre vite. Ad esempio questo pezzo è per chi in passato ha lanciato nei server dei siti americani le sue foto. Le foto di questa persona avevano sorrisi a metà. A metà perché per qualche strano motivo psicoanalitico, nell’inquadratura veniva sempre un volto a metà. Che se volete una spiegazione ve la do. Questo blog, più o meno, nasce per lo stesso motivo. Perché di fronte, l’uno all’altro/a, abbiamo sempre un agglomerato di molecole, atomi e particelle che vi passa solo una parte delle informazioni. Ci nascondiamo. Io lanciavo qui bombe termonucleari nell’etere, che esplodevano lontane da tutto e tutti. E tante altre sono esplose su pianeti che nemmeno Hubble ha mai intravisto. Anche quei selfie a metà, con mezza carica esplosiva, sono esplosi lontani da tutti e tutto. Nessuno ha sentito quel rumore. Ma l’esplosione c’è stata e ha fatto danni. Qualcuna di queste, a volte fa bene. alcune di queste esplosioni (mi assumo la responsabilità di quello che dico) sono proprio necessarie e dovremmo farcele esplodere in mano.

Io queste esplosioni le voglio. Sono in guerra, da volontario. Voglio fare danni enormi a me stesso, agli altri e al mondo. Non c’è da avere paura. Ma tu che leggi devi sapere che prima o poi qualche bomba a mano dovrai lanciarla anche tu. Per vedere che succede. Se qualche muro che ti opprime il capo come una corona di spine, magari, può venire giù. Per vedere se le armate nemiche, spaventate dal tuono della deflagrazione, possano scappare via. Devi provare. Tira la linguetta con i denti. Conta fino a cinque, non di più, e lancia. Non so dove e quando esploderà ma da qualche parte qualche danno ci sarà.

Non lo avrei detto blog, ma un po’ mi mancavi.

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Sia per me sia per te

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Scrivo di appartamenti. Perché è questo quello di cui dovremmo scrivere. Quello che succede dentro gli appartamenti. Da dove stai leggendo questo post? Non sei mica su una spiaggia in Costa Rica, amico/a. O se lo sei, devi per forza venire su vince2006.wordpress.com? Gli appartamenti sono stazioni orbitali in giro per l’Universo. Isolate dal nulla. No, non c’è niente di romantico, baby. E non per i detriti spaziali. Non per i satelliti che ti tagliano velocemente il cielo di notte, quando lo guardi e tu non lo sai ma a volte si scontrano tra loro e vengono giù ad illudere i desideri che lanci all’inseguimento delle loro scie infuocate. Perché, fuor di metafora o dentro ad una più grande, dietro la porta non c’è niente. Niente, almeno, per il quale valga la pena girare volontariamente la maniglia. Perché tu, il giorno, quella maniglia l’abbassi perché devi. La notte, a volte, vai in posti che tanto sarebbe lo stesso rimanere a casa. Sono depresso? No, bella, tutto il contrario. Io da qui vedo la luce. La vuoi vedere? Vuoi venire a sdraiarti sul mio manto di stelle? Potremmo dare il nome a qualche costellazione, potrei leggerti qualche verso, potremmo scopare. Fai tu. No, senti. Rimani lì per stasera che tanto non capiresti. O meglio, da un certo punto di vista hai già capito. Lo hai fatto in passato in quel dannatissimo sogno, pensiero, nodo ad un fiocco per il quale ti svegli ancora la mattina. Quella luce che vedo io è la stessa per la quale quando ti sbronzi, per un attimo, sembra andare tutto bene. Sai quando di estate sembra che le cose abbiano un senso diverso? Con il tipo figo che ti dice qualcosa tipo: “Ehi, ha ragione”. Bene, quella cazzo di ragione, a turno, ce la siamo passata tutti. Neanche fosse una siringa d’eroina o una canna. E l’effetto è lo stesso. La ragione ci ha sballato. Abbiamo creduto di meritare le stelle e di avere dentro il cosmo. E ora tu stai qui a leggere un post su vince2006.wordpress.com?! Cosa cazzo abbiamo sbagliato? Beh, penso che le colpe principali siano ancora sulla tua maniglia. Fuori, da qualche parte, c’è ancora quello zingaro che ti aspetta per scopare sulla riva di un fiume. C’è ancora quel discorso illuminante fatto sotto le stelle che deve finire per forza con un paio, magari di più, di corpi nudi che si stringono. C’è ancora un vecchio/a su un treno che deve passarti tutta la sapienza degli ultimi quindici secoli con uno stupido aneddoto su quando viveva vicino Torino. Eppure, amica mia, rimaniamo qui strangolati dalle pareti a scopare, leggere, piangere, ridere, guardare, morire, morire, morire ma con un velo d’alienazione negli occhi e in giro per le vene. I tuoi pompini portano piacere, non gioia. Le carezze sul tuo corpo sono un atto necessario ad espletare l’esperienza sessuale. Non sono quello che dovrebbero essere: in linea con il movimento delle galassie, solidali con l’alternarsi delle stagioni, colme degli odori e degli umori delle piogge estive e del tepore del sole invernale. Capisci? Capisci perché nei racconti metto la gente al di qua delle porte? Loro che continauno ad essere sferzati dal vento e dal destino. E su di loro, manco fossero mattoni lerci di calce, costruiscono questo mondo, che quando eravamo giovani io e te, lo facevamo esplodere a colpi di comete e fantasia.
Ecco perché scrivo di troie, drogati, falliti, di me, di te, di sfigati, di sconfitti, di speranze, di sporco, di ratti, di sorrisi. Ecco perché non posso sempre venire qui a far scintillare stelle o candele, che vai a capire te che metodo uso. Potrei deluderti facendoti scoprire come faccio ad imitare il movimento delle nebulose e del vento.
Capisci, ora?
Capisci perché devi fare qualcosa anche tu? Perché abbiamo bisogno di prendere quei treni o di gettarci per le strade. O almeno di gridare, di mettere qualcosa nei magazzini in attesa dell’inverno.
Io ora scrivo delle nostre stanze dove ci ergiamo in attesa di una rivoluzione che abbiamo atteso da sempre. Che sia di popolo o come diceva la canzone all’interno del mio letto, poco importa.
Non diamo la buonanotte al popolo. Speriamo che sferzandolo di mazzate possa finire finalmente di belare dietro al legnoso sapore del bastone del padrone.
Ma poi, chissene del popolo. Ci sono steppe russe, pianure americane, costiere italiane da percorrere. Potremmo farlo insieme. Magari senza conoscerci e neanche vederci. L’importante è che il monte che ci corre via lontano, alle nostre spalle, abbia il medesimo nome. Sia per me sia per te.

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Mio dolce, fottutissimo, ottobre

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E niente, qui ottobre ha abbassato la saracinesca, ha buttato per strada un paio di ragazzini vestiti da diavolo e se ne è andato via. Giusto il tempo di lasciare un tramonto rosso sangue come il filo di rossetto che le madri hanno disegnato sotto la bocca dei figli. Quanto mi sta sul cazzo halloween. Mi sta sul cazzo quasi quanto quelli che non lo vogliono festeggiare per motivi religiosi. E comunque meno di quanto mi sta sul cazzo la consapevolezza che ottobre sia finito. Non ho potuto godere del suo odore per le strade di Roma. Maledetto. Ho passato questo mese al telefono con degli idioti o rinchiuso in qualche stanza, in qualche parte del mondo. Gli ultimi giorni, per fortuna, nelle stanze c’erano almeno letti disfatti. Da lì sopra, attraverso la finestra, l’autunno non sembrava così adirato con noi, impelagati con elenchi “To-Do” che chiamiamo vita. Gli avvisi dei calendari su internet suonano ma invece che vivere ci segnalano altre puttanate da fare. Nel frattempo i platani si svuotano, cadono giù le foglie e se non fosse per le notti passate aggrappati a un corpo che svanisce in poco più che un abbraccio, questi mesi sarebbero andati via senza un motivo preciso. Come un film che alla fine ti fa dire: “Mah, non l’ho capito”.

Che tempo fa da te, blog? Qui le piogge, quando vengono giù, sembrano essere qui solo per appannarci le finestre. Novembre è vicino. Novembre è già domani. Spero che le parole che sprecherò su questa tastiera vengano dissipate senza parsimonia nelle strade giuste. Buon autunno, blog. Buon autunno.

PS lo so, non è una domenica di settembre ma sti cazzi.

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“Se vuoi esce”

Se vuoi esce, disse. E alla fine è uscito fuori. Cosa sinceramente non saprei. Che qui ci sono vortici belli grossi che se ci cadi dentro non finisci mai. Rimani sospeso in aria. Che a dirla tutta non è male. Una famosa intro di un film diceva che il problema non è la caduta ma l’atterraggio. Hai presente quei video emotional con musica azzeccata, immagini veloci, montaggio serrato? Ecco. Mentre cado vedo alberi, colline, strade piene di curve, volti lisci e una mano che li accarezza. Cazzo, sono in uno spot della mercedes. Ma dimmi un po’, blog. Ce le hai presente quelle persone che ti mandano le canzoni giuste su youtube? Quelle che a sentirle parlare una domenica pomeriggio d’autunno, con il sole già crepato male da ore, sembrano assomigliarti tanto? Quelle che ti chiedi come potrà mai essere diversa la loro vita con un asfalto sotto i piedi, un lenzuolo attorno il corpo nudo, le traiettorie vorticose delle foglie dentro gli occhi. Se ti mandano quelle note qualcosa sotto ci sarà. Magari anche loro sanno della tua idea: anche loro vivono da sempre. E chissà in quale caverna hai incontrato loro. Chissà in quale prato avete dato, insieme, il nome alla prima costellazione. Deve aver riso molto su quella dell’acquario e su quella dell’ariete deve non averci capito niente. La realtà è che certe note dovrebbero ricordarcelo più spesso. Io, invece, dovrei scrivere. Che poi perdo l’abitudine e qualcosa poi muore, da qualche parte e quando nella prossima vita racconterò del perché ho inventato la storia di Atlante ed Ercole rischio di non essere credibile.

 

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Stronzo

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Paaaam
Arriva una notte di settembre dove la voglia di scrivere ti prende quasi quanto quella di scopare. Ti ricordi? Quando non scopavi tutte le sere? Certe volte ti prendeva per la gola. Roba che non capivi dove iniziasse e dove finisse. E ora va meglio? Passiamo oltre, va. Insomma, ho questa voglia di scrivere stasera. Forte, volgare, selvaggia. Con riflessi fedifraghi e maniacali. Ma come altro, se l’obiettivo non è un esplosione di piacere, che senso ha? E come quando non lo si faceva mai e si rischiava il flop per il troppo desiderio, anche stasera rischio di non c’entrare il punto. Ma quando non si scopava e ora che non scrivo da settimane, di chi era/è la colpa? Se alle donne non riuscivo a far capire che mi sarei appropinquato in ogni antro, che mi sarei fermato solo una volta che il passaggio dallo stato solido a quello gassoso (sublimazione, nda) fosse stato completato nella porzione di spazio tra le lenzuola e il mio petto villoso e che i miei occhi li avrei lasciati appoggiati lì ad imitare la costellazione dell’Orsa, era colpa di qualcuno? E ora che i processi sinoptici, mentali, metafisici hanno continuato a susseguirsi, procedendo con ordine all’evoluzione di nuovi cosmi articolati e splendenti e io, coglione, non gli ho riportati su carta o diretti a ritmo di ticchettii da tastiera, a chi darò la colpa? Scrivere è il bisogno di libertà che ti porta a sfondare le frontiere materiali e spirituali. Se parli di perderti per il mondo e poi non scrivi non hai davvero voglia di partire. Scusa blog, sono stato uno stronzo.

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Post per un’amica

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Ti sono venuti a reclamare, sai? La cosa ogni tanto mi mette paura. Questi poveri accumuli di byte persi nell’oceano. Lasciati così, liberi nella corrente. Eppure qualcuno se ne ricorda. Non so nemmeno se me ne ricordo io. Cosa vengo a scriverci, qui? Cosa lascio a sedimentare lentamente. Nelle ustionanti notti di luglio non ho molto tempo per riflettere. Questo quadro da interpretare che è la mia vita non mi lascia molto tempo da dedicare ad antichi pensieri lasciati senza decodifica. Eppure, scrivendo, mi accorgo che a qualcosa serve. Quell’atmosfera così simile alle notti lasciate passare insonni a volte serviva. Anche ora quando svegliandomi ho una chioma di capelli davanti che sembra richiedere le mie braccia come scudo. E poi, se qualcuno ogni tanto passa, anche uno ogni anno, uno ogni secolo, uno ogni millennio e chiede notizie di questo blog, vuol dire che la codifica non è necessaria. Gli schizzi di colore, forse, hanno senso anche per qualcun altro. Trovano un senso anche nel loro apparente disordine sensoriale. Non so quanto serve, eppure sono qui stasera. A scanso di equivoci. Con il caldo assiepato lungo le spire della mia pelle sofferente. No, non bramo già settembre. Non voglio scoprirmi già così vecchio e vile. Sono qui bisognoso di quel caldo per tanto tempo agognato. Così come le parole di questo spazio dove, una per una, assumevano un disegno preciso. Un disegno che a contatto con la mia mente assumeva un significato splendente.

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Johnnie Walker

nighthawks

Vediamo come viene, stasera. La sigaretta langue sul posacenere nero. Io, di solito, non fumo. Lo fa la mia donna. Il posacenere l’ho comprato per lei. Nel bicchiere trasparente ho messo un dito di Johnnie Walker. Il suo color bronzo sta ballando sul fondo del bicchiere dopo l’ultimo sorso. Sul divano mio fratello ha combattuto valorosamente contro il sonno ma è stato vinto. È steso inerme con le gambe appoggiate su una sedia. La notte, dall’altra parte della finestra che ho lasciato aperta per far sfogare il fumo, è il solito imperscrutabile capriccio del cielo romano. Il buio scuro è solcato da venature rossastre. A pensarci c’è poco di romantico. Sono i veleni che rimangono pesantemente incastrati nell’aria. Io, precisamente, non  so cosa scriverti, blog. Ho scritto tanto negli ultimi mesi. La maggior parte delle cose che ho creato vogliono dire qualcosa. C’è un senso, una morale. Vai a spiegare, ora, qual è. La cosa che mi chiedo però è: se do un senso ai miei racconti, devo per forza darlo alla mia vita? Mah. Non so, blog. Eppure, trovo una connessione. Gli ultimi racconti che ho scritto e che tanto mi son piaciuti, hanno dei finali più opachi del solito. Diciamo aperti o, meglio, senza una conclusione precisa. A pensarci, un racconto che dia una conclusione, una fine, è falso. Non c’è mai una fine. Se vuoi facciamo un tratto di strada insieme ma quando ti lascerò io continuerò. Le nostre città saranno diverse. Gli svincoli che prenderemo non saranno gli stessi. Non pensare a dove sarò. Ha poca importanza. Prova a pensare a questo. Un giorno, blog, ti farò leggere qualcosa. Per ora no. Non ha senso. La mia vita è altrove. Hai presente quella gente che ti chiedi ancora dove sia andata a finire? Dove sta sbattendo la testa? Qualcuno è morto in qualche vicolo? Qualcuno è in qualche prateria sconfinata? qualcuno sta correndo follemente giù da un monte? Ecco. Anche io sono in qualche posto del genere. Pensami come vuoi. Ti chiedo solo una cortesia: immaginami più figo che puoi.

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Ma come cazzo si dice?

The Married Man

Scriverò un giorno un articolo intitolato “come si dice?”. Ci penso da tanto. Uno che vuole scrivere deve rendersi conto che con le parole deve instaurare una fruttuosa relazione. Bene, quando queste cazzo di puttane maledette non si decidono a mettersi in fila per eiacularmi dal cervello inizio ad innervosirmi. Tu, Vi? Proprio tu? Proprio tu ti abbandoni ai pensieri balbuzienti, al “ehm ehm eeeeeeeeee mhhh”? E sì, proprio io. Se non vengono, non vengono. Hai voglia a sbraitarli contro minacce inutili. Hai voglia a bestemmiare contro la sorte. Non serve riempire il cervello e gli occhi di immagini. E ne metto tante, lo giuro. Ho mandato giù dalle pupille i colli umbri, i vicoli di Orvieto, un paese arroccato su una rupe come un abbazia medioevale abbandonata, un corpo di donna nudo, una pelle lunga quanto i deserti, le strade che dalle sue gambe, passandole dentro, terminavano fuori dalle sue labbra, stanze piene dei nostri odori impregnati sulle pareti e sulle lenzuola. Roba che ogni tanto dovevo chiudere le palpebre per lasciare che tutto si depositasse attraverso i bulbi oculari. Le parole poi non sono uscite. Non si sono accerchiate intorno un foglio aggredendolo con inchiostro nero. Eppure, a che serve? Le mie parole del cazzo escono fuori quando vogliono, quando possono e quando devono ma scelgono loro i momenti. Se l’Etna decide di esplodere non deve mica fartelo sapere a te. Se una tempesta deve allagarti i sotterranei e i pensieri non si preannuncerà prima del primo tuono in lontananza. Fattene una ragione. Eppure sento tutto. Si è ammorbidito e piano piano fermenta. I movimenti della terra, a chilometri di distanza, non li avverti. Qui è più o meno la stessa cosa, anche se qualcosa la percepisci. Senti un leggero pizzicare sotto i piedi. Bene, quello che senti non puoi scriverlo. Magari puoi mentire ma verrà fuori una minchiata di proporzioni bibliche. Preferisco essere onesto e sentirmelo esplodere dentro come un orgasmo. Sentire che inondo carte, tastiere, lenzuola, strade e terrapieni. E desidero che gli schermi, i quaderni e il corpo nudo in questione sentano la fuoriuscita della materia informe che mi sgorga da dentro. Le senti le parole? Non ritieni che ora questo o quel sinonimo abbiano poca importanza? Non credi che sarebbe superfluo farmi il figo sfoderando paroloni come erezioni incontenibili attraverso i jeans? Che poi, chi leggerà su carta, non saprà niente della stanza che ci ha contenuto a malapena. Ne immaginerà una totalmente diversa. I corpi saranno altri e altre saranno le grida, i tuoni, i colli. E così, le parole stampate avranno altri sensi e altre interpretazioni. Pensandoci, non me ne frega un cazzo di come si dice . Lungo le strade attorniate dai tuoi nei, che percorro da migliaia e migliaia di anni con i polpastrelli delle dita, parlo in maniera sapiente una lingua che non necessita delle parole. Ogni tuo sorriso capisci cosa voglio dire. Ogni mio sguardo capisco cosa vuoi rispondermi.

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Vulcani e vulcani

Jacek Yerka

Jacek Yerka

Quello che importa è come metti le dita sulla carta. Come impugni la penna. Come la fai scorrere sul foglio. Stessa cosa vale per i tasti e per il loro rumore. Conta davvero solamente come la usi, la tastiera. Se quello che si imprime sullo schermo o sui quaderni è quello che volevi è già un bene. Poi però, devi sapere che ciò che rimane lì ha un peso e tu ne porti la responsabilità. Non ti serve ad un cazzo scrivere puttanate. Ne ho già lette tante, non ne voglio altre. Basta. non mi interessa. Non abbiamo tempo da perdere, amico mio. Ne abbiamo perso fin troppo dietro i film inutili, le storie vuote e le canzoni inservibili. siamo qui per fare danni, amico. Per sabotare, per unire i fili, per lanciare le bombe molotov. E solo se quello che lasci lungo i tuoi fogli vale la pena d’essere letto che noi avremo un senso. Deve valere come gli ultimi tre capitoli di The grapes of Wrath. Deve far saltare in aria i vulcani a distanza di decenni. Amico, dobbiamo farci saltare in aria le anime a vicenda, altrimenti a che serve. Non sono qui per farti passare il tempo. Io sono qui per darti l’impressione che la tua vita serva a qualcosa. Io sono qui per dirti che quello che pensavi un tempo non era sbagliato. Per donarti la consapevolezza che essere nella squadra giusta è l’unica cosa che conta. Le sconfitte fin ora non erano importanti. Te lo giuro. Hai sbagliato proprio punto di riferimento. La partita è iniziata tanto tempo fa. Roba che io e te eravamo ancora residui di comete schiantate al suolo. Che importa, dunque, se stiamo perdendo? E chi lo dice, poi. Non sappiamo neanche dov’è il fottutissimo tabellone. Io so solo che devo correre, amico. Io so solo che non mi basta segnare. Io fino alla fine devo fare il gol in sforbiciata. Crossa al centro che rovescio, quindi. Io ho il senso dello spettacolo. Non voglio solo vincere. Voglio stravincere, umiliare l’avversario. Voglio che alla prossima partita sia da idioti non chiamarmi. E tu vieni da me a lamentarti? No. Non c’è tempo per lamentarsi. Abbiamo solo qualche attimo per esplodere. come uno di quei vulcani che poi ha cambiato l’atmosfera del pianeta. Bisogna solo capacitarsi della cosa. Io mi sto attrezzando. Tu, hai iniziato il viaggio?

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