I palazzi nel cielo

Erano mesi, forse anni che non andava a correre. “Un’ora di corsa blanda e vedrai”. Forse, dopo tutta quell’attività, doveva accorciare i tempi. Ora era distrutto. Entrò in casa e neanche salutò il suo coinquilino. Si trascinò in bagno e si mise subito sotto la doccia. Il flusso forte e continuò dell’acqua lo rigenerò. Più volte, con la testa sotto l’acqua, emise gemiti di piacere. I muscoli rinfrancati si lasciavano accarezzare dal getto tiepido. Non si muoveva. Rimaneva immobile in quella posizione a farsi colpire senza pietà. Il mondo fuori poteva pure girare. Sembrò sparire la bella stagione incipiente. Il pomeriggio sonnacchioso che lo aveva visto sofferente sull’asfalto ora si accingeva a terminare ma lui lo aveva già dimenticato. Se non fosse stato in piedi si sarebbe addormentato. Forse lo fece. Chiuse gli occhi con forza e non vide nemmeno più i riflessi di luce aggrapparsi alle palpebre chiuse come serrande. Il buio totale, intorno e dentro. Neanche i pensieri provavano a far capolino. Si sentiva l’eco stesso delle gocce d’acqua. Sembrava che potesse distinguerle una ad una. Se il cervello, come un richiamo lontano e appena percettibile, non gli avesse fatto notare che qualcosa non andava, avrebbe cominciato a dare il nome ad ognuna di esse. Ritornò piano ad attivare la ragione e si accorse ancor prima di aprire gli occhi che c’era qualcosa di strano. Era troppo buio. Non poteva aver chiuso le palpebre così ermeticamente. le riaprì, non senza un leggero dolore. Buio. strano, troppo strano. ancora però non si rendeva conto. pensò infatti ad un temporale improvviso ma realizzò che poco prima era stato per strada e non vi era una nuvola in cielo. Pensò a quel punto di essere stato per ore, senza accorgersene, sotto l’acqua. La cosa lo intimidì ma l’assunse come una speranza. Non sapeva perchè sperava in una tale ipotesi ma si attaccò ad essa come un bimbo alla gonna della madre. Uscì dalla doccia e si accorse di avere paura.
«Antonio!»
Il coinquilino non rispose. Pensò di avere troppa acqua nelle orecchie e che magari non aveva sentito.
«Antonio!»
Gridò più forte. Silenzio.
Aprì la porta del bagno e un silenzio e un’oscurità insolita regnavano tra le mura che quasi non riconosceva. Andò in soggiorno rivestendosi. Camminava adagio quasi per non svegliare i suoi timori che ora sentiva sull’orlo di aggredirlo come una fiera nella notte.
Giunse alla finestra e a quel punto sentì quella belva sbranarlo. Le strade e i palazzi, compreso quello dove viveva, erano distrutti. acor più strano era veder i detriti sospesi per l’aria. Non solo quelli, anche le auto, buste, oggetti vari, segnaletica, biciclette, motorini, pezzi di vetro. Erano in vari punti, addirittura al di sopra dell’ottavo piano dove abitava. Ad una prima occhiata sembravano prigionieri di una tela di ragno invisibile ma si accorse invece che, ancorchè in maniera lieve, si muovevano come se galleggiassero in un liquido trasparente. Decise di salire su in terrazza. Corse fuori e per la fretta non si accorse nemmeno di aver preso le chiavi letteralmente al volo, sollevate dal tavolino dove di solito le poggiava. Fece quelle poche scale in un attimo. neanche questa volta valutò di aver fatto con un solo passo troppi gradini. Aprì e si ritrovò fuori. Inutile dire quanto fosse scioccato. Aveva una visuale più vasta della città e poté notare come fosse una situazione diffusa. Il gazometro, ancorato da forse un secolo a un paio di centinaia di metri in linea d’aria da lì era rivoltato a pochi metri, vagava nell’aria come una nave fantasma. Dove se lo ricordava vi era come una nebbia. Un muro grigio, come quando si vede piovere a chilometri di distanza. Capì, e questa fu la prima volta in tutta la giornata, che era l’acqua del fiume, che si era liberata dagli argini terrestri e mirava ora ad unirsi col cielo, piano piano. vide interi palazzi che ad una prima occhiata erano ancorati a terra e invece avevano gigantesche crepature, viste dall’alto, sulla base. Erano in realtà completamente staccati e anche loro volteggiavano in aria. si spostò in un altro punto e ne vide altri già a parecchi metri d’altezza. Lievitavano con pezzi di terra alle basi ed erano come isole nell’aria ma senza pirati pronti a raggiungerle e senza navi pronte ad attraccare. Fu allora che vide sul palazzo di fronte lei. In realtà voltò lo sguardo quando sentì la sua dolcissima risata. In altre situazioni ne sarebbe rimasto incantato e comunque anche ora non poté esimersi dall’ammirare quella fanciulla. Aveva un vestito dorato corto, forse era addirittura un semplice panno legato abilmente intorno al corpo sinuoso e provocante. Sedeva pericolosamente sulla balaustra lasciando le gambe nude, meravigliose e snelle, dondolare nel vuoto. Guardava impaurito per lei ma fu subito catturato da quella danza nel vuoto dei suoi piedi. Ne seguiva la linea lungo le gambe lisce e lunghe. Fino ad arrivare, superata la parte coperta d’oro, al volto allegro e ai capelli biondi e lunghi, con i boccoli persi nell’aria come se ci fosse un forte vento ma l’aria era pesante e ferma.
«Ciao»
Salutò ridendo con una voce che in altri momenti lo avrebbe rapito. Lui rispose timidamente con un cenno del braccio. Non tanto per vera timidezza quanto per la situazione assurda.
«Mi stavi aspettando, vero?» Lo disse sorridendo ma lui non corrispose. Capì chi lei fosse e la bella fanciulla perse ogni fascino relegando ad egli solo brividi di paura e terrore.
«Cosa vuoi da me?»
«Lo sai, è ora»
«No. Non ora. Non così»
«E cosa diavolo pretendi, che ti venga a prendere in auto?» Rise di gusto muovendosi tutta e lasciando intravedere le forme generose e lussuriose del suo corpo. Nonostante la paura si sentiva attratto da quel corpo e capì che questo non era un bene. Si voltò e corse verso l’entrata nel palazzo.
«Scappa pure ma penso proprio che tra poco “volerai” da me» Rise nuovamente. Lui arrivò alla porta in soli due passi. Questa volta se ne accorse. Decise però che non era una buona idea rimanere lì dentro e corse giù. Non passò nemmeno nel suo appartamento. Fare le scale in discesa si rivelò una fatica non indifferente. Evitò anche tratti distrutti e pezzi di marmo fermi nell’aria. Al portone notò che l’edificio si era elevato solo di pochi centimetri. Fece un balzo ma non toccò subito terra. Fece una fatica enorme per arrivare al suolo. Corse senza sapere dove andare. Sentiva sempre più fatica nel rimanere ancorato a terra. Era inoltre difficile scostare i detriti e i grossi pezzi di terra e d’asfalto che gli si paravano innanzi. Vedeva tutto il quartiere volarsene via. Sopra la testa aveva numerosi palazzi, come se ci fosse un’altra città su nel cielo. Nelle orecchie aveva quella risate melodiosa che lo attanagliava. La sentiva ridere e nonostante fosse già lontano sapeva che non era la sua immaginazione. Era lei che riusciva a farsi sentire anche se distante. Correva sempre più impaurito ma ormai riusciva a percorrere solo pochi metri. Sentiva una fatica addosso enorme. Ora ogni singolo passo era una pena. Quando provò a riprendere fiato si ritrovò staccato da terra. Provò di nuovo a ritrovare il suolo ma non ci riuscì più. La sua esistenza sulla terra finiva lì, lo sapeva e forse aveva semrpe saputo che sarebbe finita così. In pochi minuti si ritrovò sopra i pochi palazzi rimasti ancorati alla loro vecchia esistenza. Riusciva a vedere tutta la città e la distesa immensa di cemento nell’aria. Vedeva però anche alberi, parchi interi, uccelli appoggiati a rocce nel vento che un tempo erano pezzi di strada dove sfrecciavano le macchine. C’era una gran calma. Lontano si vedeva il tramonto. Non lo aveva mai visto da quell’altezza. Si scoprì calmo ad osservare la fine del giorno, l’ultimo. Il sole era un’enorme palla rossa che incontrava l’orizzonte come un corpo stanco. Non si decideva a porre fine alla sua fatica perchè più lui saliva e più l’orizzonte si allontanava dando al sole altri lunghi momenti di pena giornaliera. A pensarci era il tramonto più lungo che avesse mai visto. Ora lo guardava attraversando una nuvola e con storni lontani che continuavano a volteggiare mutevoli sotto di lui. Si rilassò e si godette la scena. Presto, pensava, l’atmosfera avrebbe bruciato lui e tutta la cttà che aveva osato ricongiungersi al cielo. Proprio come, forse, avrebbe fatto il sole dall’altra parte della sua linea lontana. Laggiù faceva il contrario della sua città. Andava giù per sempre mentre lui e i suoi palazzi distrutti di cui ora si sentiva il padrone, volavano verso una notte scura ma pur sempre affascinante. E prima di esplodere come una stella poteva godersi la vista della terra sempre così più piccola e lontana, salutandola con la mano in un ultimo e affettuoso addio.

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